
Questo articolo ripropone in prima persona un’intervista originariamente pubblicata su Kozmojune, in cui ogni paragrafo è la risposta ad una domanda, espressa in ogni titolo.
La mia arte affonda le radici in una tecnica già nota nell’antica Roma chiamata “graffito”. È una conoscenza tramandata di generazione in generazione nella mia famiglia, un tempo registrata nel Libro d’Oro di Murano. Per me non è una semplice eredità: è una base da cui far emergere me stesso. Oggi porto avanti questa tradizione, come artista.
Epamphoterizein
Memoria e arte, per me, sono due poli tra cui oscillare. Senza storia dell’arte non ci sarebbe arte; ma se mi fermassi solo alla memoria e alla “venerazione” delle grandi opere, di certo non sarei considerato un artista, bensì un mero imitatore. Dall’altro lato, se prescindessi in toto dalla loro conoscenza, rischierei di non essere veramente originale. Questo gravoso problema connota l’essenza stessa dell’arte: è l’arte che compone la sua storia o è la storia a definire ciò che è arte? In questo insieme c’è davvero qualcosa che si può definire “non arte”? Qualcosa che ne è ai margini non solo per giudizio soggettivo ? Esiste qualcosa che davvero si possa sottrarre ad un giudizio soggettivo più o meno condiviso?
Lavoro con una tecnica particolare — applico la foglia d’oro al vetro e poi la incido — e questa particolarità spesso rischia di farmi percepire solo come artigiano, celando il lavorio intellettuale che sta dietro ad ogni creazione. In questa battaglia “umanista” rediviva per evitare di restare intrappolato in uno dei due estremi, ho scelto di iniziare la mia esplorazione là dove risiede l’anello di congiunzione tra la storia dell’arte e l’artefice, tra artista e artigiano, tra storia e pratica quotidiana: liberare l’aspetto tecnico per rivelare l’obiettivo che contiene, un’espressione artistica personale.
Dialogo immaginario
Se potessi incontrare due antenati in studio sceglierei Francesco e Vittorio Toso Borella, padre e figlio, come me e mio padre Marco. Vorrei capire come riuscissero a lavorare insieme restando artisti indipendenti; sapere in cosa credevano, quali erano le loro ambizioni, cosa volevano dalla vita. Me li immagino rispondere con la saggezza che attribuisco loro: “Volevamo semplicemente essere noi stessi. Sii te stesso anche tu, rispettati e abbi amore per la tua famiglia. Sii degno di ciò che ti è stato dato”.
Tradizione
Sono orgoglioso delle mie radici, forse è anche per questo che sono così interessato alla storia, alla tradizione e alla famiglia. Il Libro d’Oro elencava le famiglie autorizzate a lavorare il vetro: una sorta di nobiltà di professione. La famiglia Toso vi fu inclusa per la prima volta nel XVII secolo. Quello che faccio oggi — e credo di essere tra i più giovani a farlo e sicuramente uno degli ultimi al mondo — è possibile solo grazie a sviluppi e decisioni dei miei antenati: processi che hanno reso Murano ciò che è, l’isola attraverso cui Venezia è divenuta erede dell’Impero romano nel vetro. Sono due forze in dialogo: una viene dal passato e l’altra, mia, tende al futuro. Per questo provo gratitudine e sento il dovere di portare avanti questa eredità con tutte le mie forze, per esserne degno. So che per riuscirci devo credere in me stesso, come un tempo facevano i veneziani e la mia famiglia: con coraggio, nonostante la paura di fallire.
Venezia, l’impossibile epistemico
Venezia è, per me, un miracolo. Non dovrebbe esistere eppure esiste. Ci insegna che tutto è possibile, contro ogni previsione. Nacque mentre il mondo antico crollava: i primi veneziani erano profughi in fuga dalle invasioni barbariche. Senza un luogo dove andare, cercarono rifugio nella laguna e costruirono un sogno: una città sull’acqua, dove nessuno aveva osato costruire. Resero possibile l’impossibile e fondarono una delle repubbliche più longeve della storia. Non ci fu mai una rivolta interna, nemmeno durante la Rivoluzione francese. Ne erano orgogliosi, e a ragione. Atlantide divenne realtà per oltre un millennio, indipendente, nonostante imperatori, re e papi alle porte: un modello per il mondo, in ultima analisi anche per gli Stati Uniti.
Acqua e Vetro
L’acqua trasporta Venezia e il vetro la riflette. L’acqua è per l’ambiente veneziano ciò che il vetro è per l’architettura: completa l’essenza della città, ne amplifica la potenza, rivela la vera dimensione della civiltà veneziana. Come l’acqua, il vetro ha una struttura amorfa: non è cristallino, ma malleabile e adattabile. Serve a ogni scopo e, al tempo stesso, sfugge alla volontà umana: va rispettato e compreso. Come l’acqua, il vetro è pericoloso e insieme un’opportunità. Come il vetro, Venezia è fragile e sfuggente. Venezia si riflette nel vetro, e il vetro si riflette in Venezia.
L’anima veneziana
Se oggi dovessi parlare dell’anima di Venezia, direi che ha poco in comune con il passato; forse non esiste più. La si riconosce ancora nei detti tradizionali: pragmatici arguti, saggi. Il turismo di massa e lo spopolamento, spesso descritti come problemi imputabili solo all’élite, sono per me il segno più visibile di una difficoltà più diffusa e profonda: l’incapacità collettiva di immaginare un futuro diverso. Infatti, se credi di non poter creare nulla all’altezza del passato, al massimo proverai a preservare ciò che c’è — e proprio per questo, rischieresti di perderlo. Quando poi ti accorgerai che il mondo avrà girato senza di te, reagirai con arroganza, chiusura, persino disprezzo verso chi ti verrà a trovare e visiterà la tua città; lentamente ti trasformerai in una riserva, uno zoo, una “Disneyland”, perché ti sarai rassegnato al ruolo del perdente. Questa, per me, è oggi l’anima veneziana — e forse italiana: l’opposto di ciò che Venezia era. Ancora una volta tornano i due poli: il passato e la paura di non esserne all’altezza, questa volta su un piano sociale, forse politico. Non è qualcosa che riguarda solo Venezia: tocca l’Italia e forse molte parti del mondo. La città aveva orgoglio, coraggio, visione, arguzia, lungimiranza. Non si tratta di “Make Venice Great Again”, né di promuovere un nuovo nazionalismo — sarebbe anacronistico e sciocco. Si tratta di accettare la sfida di andare avanti, con la consapevolezza del passato, ma senza restarne intrappolati. Anche per me è un percorso difficile: significa voler preservare non solo le pietre, ma i valori. Lottare per essi anche attraverso l’arte. E per “valori” non intendo la fede in San Marco o il ritorno della Serenissima, ma libertà, pragmatismo, e il coraggio di affrontare la complessità. La sfida è immaginativa. La sfida è, per certi versi, artistica.
Le radici del “Graffito”
Lavoro con una tecnica le cui radici affondano nell’antico Egitto e nell’Impero romano, che ha trovato una risonanza speciale a Venezia grazie al suo legame con Bisanzio. Sono orgoglioso di questa eredità e, a volte, ne ho timore. Da un lato sento il dovere di continuare la tradizione; dall’altro voglio esplorare le possibilità che apre. A volte non è facile lavorare qui; ma lo vivo come un’opportunità, un collegamento con luoghi lontani e culture scomparse.
Materiali, processo, perché lo amo
Se dovessi spiegare a chi non mi conosce cosa faccio e perché lo amo, direi che lavoro con materiali preziosi e con una tecnica antica che ha rischiato di scomparire. Me l’ha insegnata mio padre, qui funziona così. Il manufatto è estremamente resistente, dura per secoli. È vetro di Murano e foglia d’oro 24 carati, incisa a mano in settimane, a volte mesi, di lavoro paziente, cotto in un forno speciale per almeno mezza giornata, eventualmente decorato con smalti e cotto nuovamente: praticamente indistruttibile. E questo è solo l’aspetto materiale. Dietro ogni pezzo c’è un’esplorazione intellettuale. Tutto questo insieme spiega perché amo il mio lavoro.
Il diritto ad esistere del gesto antico
Ciò che mi spinge a portare un gesto antico nel presente è la volontà di farne il mezzo attraverso cui le persone possano vedere qualcosa di nuovo. In queste poche parole riassumo i lavori che ho in corso.
“A Venezia”
Se avessi davanti una pergamena bianca e una penna d’oca, scriverei a Venezia: Mi hai salvato.